martedì 3 febbraio 2009

Flavius Hipotius o Flavio il Piu' Potente o Potius Pothos, Poto , ovvero Dinastia di Re Desiderio

Ritratti femminili >> imperatrici romane alla corte di milano



Imperatrici romane alla corte di Milano
di Maria Grazia Tolfo



Sommario

Prologo - Eusebia - Elena - Faustina e Costanza Postuma - Giustina
Galla - Grata e Giusta - Serena - Epilogo - Bibliografia


Prologo
I destini di Eusebia e Giustina s'incrociarono per breve tempo alla metà del IV secolo, quando entrambe le protagoniste della nostra storia si unirono in matrimonio a due imperatori rivali.

Di Eusebia non possediamo la data di nascita. Proveniva da una famiglia di Salonicco di recente elevazione senatoria. Il padre Flavio Eusebio fu magister equitum et peditum prima del 347 e console subito dopo tale data e aveva almeno altri due figli di cui si conoscono i nomi: Flavius Hypotius e Flavius Eusebius. Quest'ultimo, omonimo del padre, diverrà governatore dell'Ellesponto nel 355, governatore della Bitinia nel 355/356, console nel 359.
Gli storici all'unanimità attribuiscono ad Eusebia bellezza e intelligenza, ma questi erano forse gli attributi comuni a tutte le auguste. Eusebia infatti sposò il più maturo e già vedovo Costanzo II nel dicembre 352 a Milano.

Anche Giustina viene definita bella e intelligente, ma aveva solo dodici anni quando il padre Giusto, governatore del Piceno, la consegnò in quello stesso anno al cinquantenne Magno Magnenzio, già vedovo di sua sorella maggiore e con una figlia sua coetanea. Magnenzio era stato acclamato imperatore nel 350 dopo una rivolta nelle Gallie conclusasi con la morte di Costante, fratello di Costanzo. In un primo tempo questo generale franco aveva tentato di farsi accettare dal Senato romano e dall'imperatore come collega, offrendo in moglie a Costanzo la propria figlia e chiedendo per sé Costantina, sorella vedova dell'imperatore. Ma la sua origine germanica escludeva che potesse in qualche modo raccogliere legittimamente l'eredità del grande Costantino, imparentandosi coi suoi figli.

Costanzo scese in campo nel 353, sconfisse il rivale e per l'occasione riaprì la zecca a Milano con l'emissione di una moneta commemorativa, in cui veniva effigiato quale debellator orbis. Magnenzio si suicidò il 10 agosto a Lione; la sua testa venne spiccata e portata in giro per le province; chiunque l'avesse sostenuto, anche solo con un gesto di compassione umana, venne torturato, condannato a morte o all'esilio e i suoi beni confiscati (Amm. Marc., XIV 5, 1-9). Questa sorte toccò al padre di Giustina e a Graziano il Vecchio, il cui figlio Valentiniano diventerà imperatore e secondo marito di Giustina.

Ammiano Marcellino ha così tratteggiato il carattere fisico e psicologico di Costanzo: bruno, con uno sguardo luminoso e penetrante, morbidi capelli, guance sempre ben rasate, brevilineo. Sobrio e parco, moderato nel cibo e nelle bevande, dormiva pochissimo. La sua massima abilità era nel cavalcare, nel lanciare giavellotti e nel saettare con precisione. Era così compreso della sua ieratica maestà che, in presenza del pubblico, rimaneva immobile come una statua, senza pulirsi nemmeno il naso. Poiché era scarso d’ingegno, era prudente fino alla paranoia, che lo spinse a commettere parecchi omicidi anche di consanguinei, ma soprattutto di persone che temeva. Per questo motivo non presenziò mai a processi. L’unica persona della quale si fidò ciecamente fu la moglie, che gli fece da filtro alle voci sottili degli eunuchi e a quelle insinuanti dei cortigiani.



Eusebia, signora della fabbrica degli intrighi di corte?
Costanzo ed Eusebia posero la loro sede a Milano nel palatium presso S. Giorgio al Carrobio di Porta Ticinese, adattato per un fastoso soggiorno. Il clima che si respirava a corte era tutt'altro che sereno: adulazione cortigiana, lusinghe artificiose, trame di calunnie tessute instancabilmente dagli avidi eunuchi di palazzo, segreti sussurri che materializzavano cavalletti di tortura, catene, pianti di supplici inascoltati. "La fabbrica degli intrighi di corte batteva giorno e notte sulla stessa incudine secondo la volontà degli eunuchi, che con la loro esile voce sempre infantile e accattivante, con una pesante odiosità, rovinavano, sussurrando alle orecchie troppo accoglienti dell'imperatore, la reputazione anche di un eroe." (Ammiano Marcellino, XVIII 4, 2-4).

Tutta la letteratura nera che siamo abituati ad associare a Bisanzio si potrebbe benissimo trasferire alla corte milanese. Ammiano Marcellino ci consegna due impareggiabili ritratti di cortigiani: Paolo, spagnolo, cameriere della sala da pranzo "soprannominato Catena perché era invincibile nell'intrecciare complicate calunnie" e Mercurio, persiano, detto "conte dei sogni", perché "insinuandosi spesso in molti banchetti e riunioni, come un cane nascostamente pronto a mordere, che dissimula l'intera crudeltà scodinzolando umilmente, se qualcuno narrava ad un amico un sogno, lo riferiva con velenosi artifici, deformandolo, alle orecchie avide dell'imperatore".

Ad alimentare questo inferno di turpitudini c'era Costanzo, spietato assassino dei suoi consanguinei nel 337 e timoroso di ricevere lo stesso trattamento. Dopo aver eliminato nel 354 suo cugino Gallo, che aveva fatto sposare con sua sorella Costantina, Costanzo assaporò per un attimo il delirio del potere e cominciò a definire se stesso "la mia Eternità" e a firmarsi "Signore di tutto il mondo". Restava però in vita un ultimo rivale, che aveva tutte le carte in regola per contestargli il dominio assoluto: suo cugino Giuliano, fratellastro di Gallo. E su di lui si concentrò la fabbrica degli intrighi.

Giuliano, nato a Costantinopoli nel 331 e scampato alla strage del 337, era vissuto in rigoroso e forzato isolamento a Macellum in Cappadocia, in quella che lui chiamava "la torre del silenzio", ossia l'edificio funebre dove i persiani esponevano i cadaveri al pasto degli uccelli. Nel 355 venne prelevato e condotto nei pressi di Milano, dove attese in angosciosa incertezza sei lunghi mesi prima che Costanzo trovasse il coraggio di guardarlo negli occhi. La regìa dell'incontro spettò a Eusebia. Secondo Ammiano Marcellino sarebbe stato schiacciato dalla nefanda cospirazione dei cortigiani se non lo avesse appoggiato per ispirazione divina l'imperatrice, che gli procurò l'autorizzazione a trasferirsi all'università di Atene.

E' difficile cogliere le reali intenzioni di Eusebia: Giuliano le dimostrò, almeno nei suoi scritti, una sincera gratitudine per averlo mandato nella sua amata Atene; ma il bel gesto dell'imperatrice sembra una manovra diversiva in attesa di sferrare l'attacco decisivo. Pochi mesi dopo Giuliano fu richiamato a Milano perché il 6 novembre si celebrava la sua elezione a cesare e contemporaneamente gli si offriva in moglie Elena, la sorella minore di Costanzo. Tutta l'operazione fu architettata da Eusebia. La corte di Milano era propensa ad abolire la carica di cesare e a mantenere tutto l'impero sotto un solo augusto, ma "a questi sforzi si opponeva ostinatamente solo l'imperatrice, non si sa bene se perché temesse un trasferimento in regioni remote (le Gallie), o per provvedere al bene pubblico secondo la sua naturale saggezza." (Amm. Marc. XV 8,2). Il trasferimento nelle Gallie, regione oltremodo turbolenta e palcoscenico degli assassinii di quasi tutti i prossimi imperatori, equivaleva in realtà alla condanna a morte.

Quando Giuliano arrivò a Milano, l'imperatore convocò l'esercito, prese posto su una tribuna eretta su un rialzo di terra, circondato da aquile e insegne e, tenendo la mano destra di Giuliano, lo associò come cesare al comando, rivestendolo della porpora imperiale. Con questo gesto l’imperatore si costituiva quale garante (auctor) del candidato. Tutti i soldati, battendo gli scudi contro le ginocchia con spaventoso fragore, mostrarono la loro approvazione. Giuliano era cosciente del significato dell'elezione, perché mentre sedeva sul cocchio imperiale per entrare alla reggia mormorò, citando l'adorato Omero: "La purpurea morte e un possente destino mi hanno afferrato". Il neo-cesare ricordava ancora, dopo tanti anni, il massacro dei suoi parenti ordinato proprio da chi ora gli sedeva al fianco; come lui stesso scrisse nelle sue memorie, sentiva ancora il sapore del fumo denso nella sua gola e l'odore dolciastro del sangue di cui era imbrattato prima che una mano pietosa lo sottraesse alla carneficina. Aveva meno di sei anni quando questa tragedia segnò per sempre la sua breve esistenza.

Dopo aver celebrato il matrimonio con Elena, nubile e vicina ai trent'anni, il 1° dicembre la coppia fu spedita in fretta e furia nelle Gallie. C'è troppa insistenza da parte di tutti gli storici e in Giuliano stesso nel definire Eusebia "donna estremamente intelligente" e Costanzo succube delle sue decisioni per non riconoscerla come la principale stratega di questa operazione. Giuliano era l'ultimo discendente dei figli che il capostipite Costanzo Cloro ebbe da Teodora, mentre dei figli avuti da Elena rimanevano Costanzo II ed Elena, tutti senza figli: in attesa di rimanere incinta, Eusebia doveva eliminare i due diretti rivali. L'imperatrice, colpita dalla temibile sterilità, contava sulla professione di castità fatta da Giuliano e sulla precaria salute della cognata Elena. Purtroppo per lei le cose presero una piega completamente diversa.



Elena
Eusebia non aveva calcolato che per un filosofo come Giuliano era ammesso il sacrificio di se stessi in nome dello Stato: Elena rimase incinta poco dopo il matrimonio. Ammiano Marcellino, che pure loda la bontà, la cultura e la bellezza di Eusebia, non tralascia di riportare i sospetti che caddero sull'imperatrice allorché Elena perse il primo figlio a Lutetia (Parigi) per un taglio eccessivo del cordone ombelicale. In occasione di una seconda gravidanza, si mormorò che Eusebia avesse propinato alla cognata una pozione abortiva durante il viaggio ufficiale a Roma nell'aprile 357 per la celebrazione del ventennale di governo di Costanzo II. Giuliano non nominò quasi mai sua moglie, non le dedicò il minimo pensiero affettuoso e non ebbe mai parole di dolore per i figli che morivano. Elena, relegata a Lutetia, semplicemente non esisteva.

Difficile farsi un ritratto di questa donna, che ha subìto una sorta di censura anche presso i contemporanei. Elena visse come un'invisibile. Già il fatto che a trent'anni fosse nubile costituisce un'eccezione anche nel panorama del primo cristianesimo. Non si era ancora fatta strada la possibilità per una donna di stirpe imperiale di consacrarsi alla Chiesa in piena castità, scelta ammessa invece per le patrizie. Tutto lascia intendere che soffrisse di disturbi che consigliavano per lei una vita ritirata. Non bisogna dimenticare che sua madre Fausta era stata giustiziata da suo padre Costantino, nel dubbio ingiustificato di un adulterio consumato con Crispo, figlio maggiore dell'imperatore e anche lui eliminato. Elena non aveva che un anno quando la tragedia si compì e fu condannata a vivere senza madre, col solo conforto della sorella Costantina di dieci anni maggiore.

Eusebia era astuta: quando Elena seguì il fratello con la sua corte a Milano dovette conquistare la sua fiducia con affettuosa premura. Le insinuò gradualmente l'idea del matrimonio col cugino cercando di non urtare la sua suscettibilità. Ma è difficile credere in un affetto sincero e disinteressato quando uno storico contemporaneo si permette di riportare voci che lasciano trapelare, se non intenti omicidi, una palese rivalità.

Quando nel 356 nacque il primo figlio - un maschio! -, la levatrice tagliò il cordone ombelicale in modo da procurare un'emorragia al neonato. Secondo la normale procedura, il cordone ombelicale veniva reciso quattro dita sopra l'ombelico solo quando la levatrice si era accertata dell'integrità fisica del neonato, altrimenti, con l'approvazione del medico, sopprimeva l'infelice creaturina. In caso di errata valutazione, i due sanitari rispondevano con la propria vita. Le accuse contro la levatrice dovettero essere avanzate dai nemici di Eusebia, ma nessuno storico ci informa di misure punitive contro la levatrice e il medico e neppure Giuliano ne accenna nei suoi scritti.

Il secondo aborto si verificò in occasione del viaggio da Parigi a Roma; Elena era rimasta subito nuovamente incinta e le sue precarie condizioni di salute avrebbero dovuto sconsigliare un viaggio così impegnativo. Chi pretese la presenza di Elena alla cerimonia del fratello a Roma? La conseguenza fu ovviamente catastrofica e nuovamente si puntò l'indice accusatore contro Eusebia. L'ultima gravidanza fu fatale a Elena, che morì senza che venisse registrato neppure il giorno esatto del decesso, fissato tra la fine del 360 e l'inizio del 361. Anche questa volta si favoleggiò di un intervento criminoso di Eusebia, che moriva negli stessi giorni.

La bella Eusebia era colpita dalla più terribile delle malattie per un'imperatrice, la sterilità. Per curarsi doveva utilizzare potenti e pericolose pozioni, preparate sotto stretto controllo medico, che avevano effetti emorragici. Fu così che morì. Il fatto che disponesse di tali filtri indusse i suoi detrattori ad accusarla di averli fatti assumere anche alla cognata, che non ne aveva certo bisogno. Mai Giuliano dà segno di raccogliere queste accuse.

Il montaggio delle trame contro Eusebia potrebbe essere opera del partito cattolico. L'imperatrice, come suo marito, era cristiana ariana, mentre Elena era cattolica e Giuliano notoriamente pagano. Elena si prestava ad assumere le caratteristiche di una novella martire e la sua storia utilizzata nella propaganda contro gli ariani. L'imperatrice venne tumulata in un sarcofago di porfido, il marmo rosso degli imperatori, nel mausoleo vicino a S. Agnese sulla Nomentana. Il mosaico che una volta ricopriva le pareti della cupoletta sopra il sarcofago raffigurava la Gerusalemme celeste con due figurette, che ritraevano Elena e sua sorella Costantina.

Eusebia si era indelebilmente macchiata di fronte ai cattolici dopo il grandioso concilio svoltosi da gennaio a maggio 355 nella basilica ecclesìa nova (S. Tecla), fatta appositamente costruire dall'imperatore. L'esito del concilio fu drammatico: il vescovo cattolico Dionigi fu esiliato e al suo posto la corte impose il cappadocio Aussenzio, di lingua greca e credo ariano. La sua ignoranza del latino suscitò l'ostilità dei milanesi e il suo insediamento dovette avvenire sotto scorta armata. Le gerarchie cattoliche lo definirono lapidariamente "faccendiere" per i suoi stretti rapporti con la corte e addossarono la colpa dell'esilio di Dionigi alla perfida Eusebia. Perché non attribuirle anche gli attentati contro Elena?



Faustina e Costanza Postuma
Costanzo II aveva subìto il fascino e il potere di Eusebia, ma questo non gli impedì di risposarsi subito per garantirsi la discendenza, e la prescelta fu Faustina. Era il terzo matrimonio e fu celebrato ad Antiochia. A Costanzo non fu però concesso di conoscere chi lo avrebbe rappresentato fra i posteri, perché morì prima che la moglie desse alla luce all'inizio del 362 Flavia Costanza, detta quindi Postuma.

La sorte di questa piccina pare essere segnata sin dall'infanzia. Orfana di tanto padre, venne strumentalizzata dall'usurpatore Procopio nel 365 per garantirsi il favore dei soldati fedeli alla memoria di Costanzo. Procopio era parente di Basilina, moglie di Giulio Costanzo e madre di Giuliano, e questa parentela con la famiglia regnante lo autorizzava a proclamarsi difensore della discendente imperiale: portava in giro per gli accampamenti su una lettiga la vedova Faustina e la piccina come degli ostaggi. Procopio venne ucciso dall'imperatore Valente, fratello di Valentiniano I, e di Faustina non abbiamo altre notizie; la figlia Costanza venne giocata come pedina dinastica per sancire la continuità tra la discendenza di Costantino e quella del nuovo imperatore Valentiniano I, che nel 374 le imporrà il mite figlio Graziano.

Ma neppure il viaggio per raggiungere lo sposo a Treviri fu senza incidenti: “mentre pranzava in una pubblica villa chiamata Pristensis, poco mancò che fosse fatta prigioniera dai Quadi, se per la protezione di una divinità propizia non si fosse trovato sul luogo il governatore della provincia pannonica Messalla, che la fece salire su una carrozza del servizio postale e la ricondusse di gran carriera a Sirmio, lontana da lì ventisei miglia. Così per questo caso fortunato fu sottratta al rischio di una miseranda schiavitù la regale fanciulla, la cui cattura, se non se ne fosse ottenuto il riscatto, avrebbe inferto una grave iattura allo stato romano”.

La vita risparmiatale in questa occasione non fu per altro né lunga né felice. Dopo aver messo al mondo nel 379 un maschietto, del quale si ignora persino il nome, Costanza morì nel 383 e il 12 settembre dello stesso anno la sua salma fu trasferita nel mausoleo imperiale di Costantinopoli.


Giustina
Da concubina a imperatrice
Giustina ricompare come signora dei palazzi imperiali di Treviri nel 369, quando diventa la legittima consorte dell'imperatore Valentiniano I. E' la seconda volta che assurge al vertice del potere sposando un generale estraneo alle dinastie imperiali.

Alla morte di Costanzo l'impero era passato al cugino Giuliano, trafitto a morte nel 363 da una lancia, non si seppe mai di quale esercito. Gioviano, il protector domesticus (ufficiale delle guardie palatine) che aveva accompagnato la salma di Costanzo II a Costantinopoli, assunse le redini dello Stato. Suo suocero Lucilliano, ritiratosi dalla carriera militare a Sirmio, venne inviato a Milano come magister equitum et peditum (comandante supremo della cavalleria e fanteria) per porre rimedio alla situazione incerta creatasi dopo la morte di Giuliano. Lucilliano doveva portare con sé persone fidate e la scelta cadde su Seniauco e Valentiniano. La reazione milanese alla notizia della morte di Giuliano fu talmente violenta che il solo Valentiniano scampò all'eccidio. Poi, per un improvviso giro di fortuna, colui che poco prima aveva temuto per la vita si vide innalzare al comando dello Stato quando Gioviano morì il 17 febbraio 364.

Valentiniano aveva allora quarantatré anni, con un fisico atletico, splendido colore di capelli, occhi azzurri dallo sguardo obliquo e inquietante, statura elevata e tratti armoniosi. Era originario della Pannonia, pagano appena convertito al cristianesimo (indifferente alla distinzione fra cattolici e ariani); Ammiano lo descrive come scrittore dignitoso, di eloquio vivace ed incisivo, pittore e scultore piacevole, inventore di nuove armi, amante dell'eleganza; per controparte aveva un pessimo carattere: autoritario fino alla crudeltà per esigere disciplina e obbedienza, con eccessi di collera incomprensibili per l'educazione classica romana, implacabile e sommario nell'emettere sentenze e affrettare giudizi.

Come sede della sua corte aveva inizialmente scelto Milano, dove soggiornò dal novembre 364 alla fine del 365, poi si spostò a Lutetia per dirigere le campagne contro gli Alamanni. I frequenti e micidiali attacchi di febbre cui andava soggetto gli consigliarono di associare già dal 367 il figlio Graziano, di soli otto anni, onde garantire la continuità dinastica in caso di peggioramento delle sue condizioni. Nel discorso che Valentiniano pronuncia nella cerimonia c'è già il ritratto del futuro sfortunato imperatore: "Non è stato educato come noi sin dalla culla a un'inflessibile disciplina, né è maturato nel sostenere le difficoltà... (ma) poiché è stato educato negli studi letterari e nelle discipline che allenano l'intelligenza, esaminerà con retto giudizio il valore delle azioni buone e malvagie; farà in modo che gli onesti sappiano di essere compresi..." (Am. Mar. XXVII 6, 8-9).

Poi la corte di spostò a Treviri, e qui entra in scena Giustina. L'unione aveva fatto scandalo, perché Valentiniano era ancora sposato con Marina Severa, che ripudiò in favore di questa avvenente ventenne, tradizionalmente legata al suo stesso partito politico. La storia della Chiesa non ha potuto accettare che il padre del mite e cattolico Graziano fosse stato bigamo ed ha quindi elaborato la leggenda che Giustina, essendo rimasta orfana e vedova a tredici anni, avesse fatto l'ancella di Marina Severa. L'imperatrice, colpita dalla perfezione del suo corpo, ne avrebbe parlato in maniera entusiasta al marito, che avrebbe promulgato una legge per ammettere il concubinato per gli imperatori (Paredi, p. 147). Secondo alcune fonti Giustina divenne la concubina di Valentiniano I nel 363 e ne suggestionò le decisioni a favore del vescovo ariano Aussenzio nel 364. Secondo altri l'unione ebbe luogo nel 369 a Treviri.

Giustina era però destinata a recitare il ruolo di vedova. Valentiniano I morì il 17 novembre 375 in Pannonia, suo paese natale, per un attacco apoplettico durante la campagna contro Quadi e Sarmati, lasciando la moglie con quattro figli: Valentiniano nato nel 371, Grata, Giusta e Galla. In questa occasione vediamo ricomparire Flavia Massima Costanza, la pustuma figlia dodicenne di Costanzo II (m. 361), che da Costantinopoli transitava per la Pannonia per andare sposa a Graziano. Ammiano Marcellino racconta che per poco non veniva fatta prigioniera dai barbari, se non fosse sopraggiunto un governatore romano a trarla in salvo nella fortezza di Sirmio.

Quando Valentiniano moriva, Graziano era a Treviri, in attesa dell'arrivo della sposa, mentre Giustina coi figli aveva seguito il marito in Pannonia e si trovava a cento miglia dall'accampamento. Appresa la notizia, il generale franco Merobaude prese in mano le redini della situazione. Venne nominato magister peditum e, in tale veste, promosse l'immediata elezione ad augusto di Valentiniano II, sostenuto anche dallo zio Cereale e dal generale pannonico Equizio. Graziano cominciava a sperimentare il potere della matrigna Giustina.



L'imperatrice reggente
Giustina non si muove da Sirmio, dove esercita il ruolo di imperatrice reggente in nome del piccolo Valentiniano II, di soli quattro anni.

Pochi mesi dopo la sua presa di potere si verifica il primo dei grandi scontri che segneranno la storia di Milano: Giustina si misura con Aurelio Ambrogio, vescovo di Milano dal 374. Alla morte del vescovo di Sirmio Germinio, di credo ariano, la comunità cattolica chiama il vescovo di Milano Ambrogio, quale metropolita della grande diocesi, per sostenere la candidatura di un vescovo cattolico. Ambrogio era noto alla popolazione di Sirmio per aver lavorato cinque anni nella prefettura, al servizio di Sesto Petronio Probo, prima di essere nominato governatore di Milano. Il biografo di Ambrogio, Paolino, ci offre un vivace spaccato dello scontro (Vita Ambrosii, 11): "Era sul punto di essere scacciato dalla chiesa da una moltitudine radunata dalla potenza dell'imperatrice Giustina, affinché fosse ordinato un vescovo ariano non da lui ma dagli eretici. Quando era nel presbiterio, senza curarsi per nulla della sommossa aizzata da quella donna, una delle vergini ariane, più impudente di tutte le altre, salendo nel presbiterio afferrò la veste del vescovo con l'intenzione di trascinarlo nella parte occupata dalle donne, perché fosse battuto da loro e scacciato". Per inciso questo episodio ci informa sull'esistenza di vergini consacrate anche al credo ariano e sulla divisione delle navate, al di sotto del presbiterio, a seconda dei sessi.

Vince comunque Ambrogio, che riesce a far eleggere un vescovo cattolico, Anemio. A parte questo smacco, la vita a Sirmio doveva essersi fatta pesante per l'incalzare dei Goti, soprattutto dopo il disastro di Adrianopoli del 9 agosto 378, in cui era morto bruciato l'imperatore d'Oriente Valente, cognato di Giustina. Graziano si trasferisce a Sirmio per essere più vicino al teatro delle battaglie, ma alla fine dell'anno si consiglia un trasferimento di Giustina e figli a Milano, per il momento al sicuro da qualsiasi attacco.



Giustina guida la riscossa ariana contro Ambrogio
Il trasferimento non piacque a nessuno: non al vescovo che temeva, a buona ragione, l'invasione delle truppe ariane al servizio di Giustina e Valentiniano II; neppure a Graziano, che con il vescovo stava intessendo un rapporto di amore filiale; tanto meno alla stessa Giustina, che non tollerava rivali a corte.

Paolino continua così la narrazione (Vita Ambr., 12): "Giustina, trasferita la corte a Milano nel 378, sobillava il popolo con l'offerta di doni e di onori. Gli animi dei deboli erano accalappiati da tali promesse: assegnava infatti tribunati e diverse dignità a coloro che avessero rapito il vescovo dalla chiesa e condotto in esilio". In effetti Giustina richiese per il culto ariano l'assegnazione di una basilica e, di fronte al netto rifiuto del vescovo, la fece occupare. Graziano dovette intervenire ordinando ufficialmente il sequestro della basilica per garantirne l'officiatura da parte ariana. L'imperatrice-madre tentò di sostituire Ambrogio con Giuliano Valente, vescovo cattolico ma con aperture verso l'arianesimo. Negli atti del concilio di Aquileia del 381 Ambrogio lo accusa di indossare collana e braccialetti come i Goti, cosa doppiamente empia, e di turbare la chiesa milanese provocando tumulti sia davanti alla sinagoga, sia nelle case degli ariani.

La durezza dello scontro dovette non poco sconcertare il giovane imperatore, che chiese ad Ambrogio un fidei libellus e il vescovo compose per lui il De fide, un'amplissima confutazione dell'arianesimo.

Il 19 gennaio 379 Graziano si associa nell'impero quale augusto d'Oriente il cattolicissimo generale Teodosio, il cui padre aveva fatto giustiziare a Cartagine solo tre anni prima. Chi suggerì una così fatale scelta? Graziano è a Treviri da fine agosto 379 a primavera 380, accompagnato da Manlio Teodoro, l'influente comes rerum privatorum a capo della fazione cattolica milanese. Quali argomenti abbia usato l'amico di Ambrogio per convertire alla propria fazione il duttile imperatore non sappiamo, ma quando Graziano ritorna a Milano il 22 aprile 380 emana un editto che impone la confisca di tutti i luoghi di culto a vantaggio dei cattolici e impone che sia restituita ai cattolici una basilica sequestrata dagli ariani non per sua iniziativa (Ambr., De spiritu I, 8, 19-21).

Il 30 settembre 380 a Sirmio Graziano e Teodosio sottoscrivono un accordo per una nuova sistemazione dell'impero: Valentiniano II, di soli nove anni, controlla la prefettura d'Italia, Illirico e Africa con sede a Milano; Graziano viene spedito a Treviri a controllare le bellicose Gallie e Teodosio si tiene il meglio, l'Oriente con sede a Costantinopoli. La frontiera occidentale era l'inferno per i romani. Graziano lo capisce immediatamente e il 29 marzo 381 è già di ritorno a Milano con tutto il suo seguito.

Ambrogio non può che esultare per aver riottenuto il suo docile alleato, che per la Pasqua gli fa riconsegnare la solita basilica occupata dagli ariani. Giustina è stizzita e si sposta ad Aquileia e allora Ambrogio va a portare guerra anche in quella città, facendo indire con lettere di Graziano un sinodo provinciale che inquisisca gli ariani. Come si direbbe oggi, era un processo chiaramente politico e anche la lettura degli asettici atti processuali ci fanno piombare in un clima cupo che prelude ai processi medievali.

A Milano la lotta contro Ambrogio è portata avanti con zelo da Macedonio, il magister officiorum fedele a Giustina, che controllava diversi uffici del palazzo imperiale, dalla segreteria alla schola di agentes in rebus, opponendosi all'ingerenza di Ambrogio nelle questioni civili.

Nell'autunno 382 le legioni di stanza nelle Gallie, preoccupate dalla mancanza di un comandante supremo che fronteggi l'inesauribile impeto delle invasioni barbariche, acclamano imperatore Magno Massimo, un generale ispanico, cattolico, grande amico di Teodosio; contemporaneamente da Milano Graziano promulga una serie di editti che minano alle radici la tradizione religioso-politico romana: viene abolita la nomina per il mantenimento delle Vestali; vengono confiscati i beni a tutti i collegi sacerdotali pagani e viene rimosso l'altare della Vittoria nel senato romano, sul quale giuravano fedeltà i senatori. Graziano dispone che i sussidi tolti a sacerdoti e vestali vadano a favore dei baiuli (facchini), vespillones (becchini) e tabellari (postini). Dal canto suo Ambrogio vieta i refrigeria, i banchetti che si celebravano sulla tomba nell'anniversario della nascita di un defunto. Ci resta un'interessante descrizione del rito e della fatica alla rinuncia nelle Confessioni di S. Agostino (6, 2), relativamente alle abitudini di sua mamma Monica, a Milano dal 385.

Come monumenti imperituri di tanto fervore cattolico, Graziano e Ambrogio promuovono la costruzione di due basiliche extra-murane ma non cimiteriali, una a sud, oggi nota come S. Nazaro e SS. Apostoli, l'altra a nord, S. Simpliciano.

Nel 25 agosto 383 viene assassinato il ventiquattrenne Graziano nel corso di un banchetto organizzato in suo onore a Lugdunum (Lione). Anche in questo caso le fonti storiche sono discordanti: secondo alcuni nel banchetto fu assassinata tutta la famiglia imperiale, cioè anche Costanza e il bambino che era nato nel 379. Secondo altri Costanza era già morta e Graziano si era risposato con Leta. Ambrogio non ne fa menzione. Se l'eliminazione dell'intera famiglia risponde a verità, prenderebbe corpo l'ipotesi della lotta dinastica piuttosto del problema del controllo militare.

Giustina teme che l'alleanza Teodosio-Massimo sia fatale anche al figlio e rinforza l'esercito goto, ma il giovane Valentiniano II è schiacciato fra la pressione materna, quella del generale franco Bautone che vuole governare a suo nome e quella psicologica del vescovo. Non fa in tempo a sottoscrivere il ripristino dell'ara della Vittoria in senato, che Ambrogio gli scrive in maniera così sottilmente minacciosa da fargli annullare il decreto. E così anche quando ordina la restituzione dei fondi ai collegi sacerdotali, Ambrogio riesce a bloccare l'esecuzione del decreto.

Alla fine del 384 Giustina fa venire a Milano Mercurino, vescovo ariano di Durostorum (Silistra, sul Danubio in Romania), deposto da Teodosio. Doveva essere un goto, discepolo di Ulfila. Giustina tenta di organizzare una chiesa ariana da contrapporre a quella cattolica, ed è guerra aperta tra lei e il vescovo. Nella primavera 385, in preparazione della Pasqua, gli uffici di corte chiedono ad Ambrogio di mettere a disposizione la basilica ecclesìa per la celebrazione delle feste. Il vescovo si reca subito a corte (Ep. 75A, 23): "Quando il popolo seppe che mi ero recato a palazzo, vi fece irruzione con tale impeto che non furono in grado di tener testa alla sua violenza; il conte militare uscì con le truppe leggere per mettere in fuga la folla e io fui pregato di placare il popolo promettendo che nessuno avrebbe invaso la basilica ecclesìa". Una ben orchestrata sommossa?

Il risentimento di Giustina è enorme: "L'imperatore non deve ricevere una basilica in cui recarsi e Ambrogio vuole essere più potente dell'imperatore?". Valentiniano assegna allora d'ufficio agli ariani la basilica Porziana extra muros, la cui identificazione è rimasta un enigma irrisolto in tutti questi secoli, ma i cattolici la occupano. Le truppe imperiali circondano allora sia la Porziana, sia la basilica ecclesìa e la Vetus, ma di fronte alla resistenza inflessibile di Ambrogio, onde evitare spargimenti di sangue, le truppe si ritirano.

Giustina si sposta allora da luglio a dicembre 385 ad Aquileia per preparare il contrattacco ad Ambrogio. Il 23 gennaio 386 Valentiniano II emana da Milano una costituzione rivolta al prefetto pretorio Eusiginio che condanna l'integralismo di Ambrogio e in cui si concede diritto di culto pubblico agli ariani, pena di morte a chi si opponeva (Cod. Theod. XVI 1.4). Ambrogio viene invitato a lasciare Milano e a trovarsi una sede di sua scelta. La replica di Ambrogio è nel sermone che pronunciò nel marzo contro il suo rivale ariano Mercurino Aussenzio: "Imperator enim intra Ecclesiam, non supra Ecclesiam est" (Ep. XXI), frase che valse ad Ambrogio la scelta a patrono della città. La reazione di Giustina, per mano del figlio, non tarda a farsi sentire: Ambrogio deve presentarsi con giudici di sua scelta davanti al consistoro per sostenere un contraddittorio con Mercurino Aussenzio. Ambrogio rifiuta e invita provocatoriamente il giovane imperatore a trasferirlo pure d'ufficio se non teme la guerra civile. L'esistenza del vescovo si fa durissima ed è seguito a vista dalla polizia imperiale.

Per la Pasqua la corte chiede la basilica ecclesìa nova, ma i fedeli cattolici occupano già dalle Palme le tre basiliche, nova, vetus e Porziana. Per tenere svegli ed emotivamente eccitati i fedeli, Ambrogio introduce a Milano i canti antifonati, che rimarranno nella tradizione liturgica ambrosiana. L'occupazione, cominciata venerdì 27 marzo, si protrae fino a giovedì 2 aprile, poi Giustina demorde e decide di andare a festeggiare la Pasqua nella più tollerante Aquileia.

A giugno è la volta di Ambrogio a sferrare un colpo basso: in maggio aveva consacrato la basilica degli Apostoli; il mese dopo, dovendo consacrare anche la basilica che da lui prese il nome e avendo predisposto la sua sepoltura sotto l'altare maggiore, la reazione ariana e imperiale è immediata: forse che il vescovo aveva avuto la presunzione di costruirsi un mausoleo per sé? Allora Ambrogio il 17 giugno 386 inviene presso la basilica dei SS. Nabore e Felice i corpi di due decapitati anonimi, che chiameranno Gervasio e Protasio, e li farà seppellire presso di sé: "Poiché non ho meritato personalmente di essere martire, ho almeno ottenuto questi martiri per voi" (Ep. XXII, 12).

La provocazione verso gli ariani era scoperta, perché l'arianesimo negava il culto dei martiri o dei santi o più in generale delle reliquie. In occasione delle "invenzioni" si alzavano le grida degli invasati dai demoni, che in questo modo attestavano l'autenticità dei corpi dei martiri. Dopo la "confessione" demoniaca, gli invasati erano liberati dagli spiriti immondi. Gli ariani si facevano beffe di tutto questo trambusto: "Nella corte una moltitudine di Ariani, che attorniavano Giustina, derideva la grazia divina che il signore Gesù mediante le reliquie dei suoi martiri s'era degnato di conferire alla Chiesa cattolica, e andava raccontando che Ambrogio s'era procacciato con denaro alcuni uomini che fingessero d'essere vessati da spiriti immondi e tormentati da Ambrogio stesso e dai martiri. E così parlavano gli Ariani con linguaggio di giudei, certo loro consimili" (Paolino, 15, 1-2). Il modello dell'invenzione è quello usato dall'imperatrice Elena, madre di Costantino, nel ritrovare sul Golgota la S. Croce, avvenimento celebrato da Ambrogio nell'orazione funebre per Teodosio.

Giustina è esasperata: nel novembre 386 si trasferisce temporaneamente ad Aquileia e intanto studia le modalità per il passaggio definitivo della capitale da Milano a Roma. Il vuoto di Milano provoca la fatale discesa di Massimo, stanco anche lui della scomoda sede di Treviri. Giustina coi figli fugge a Salonicco nell'estate del 387, richiedendo l'intervento armato di Teodosio. Il prezzo preteso da Teodosio è alto: prima di tutto Giustina e i regali rampolli devono abbracciare il cattolicesimo, poi, quale garanzia, gli deve essere concessa Galla, appena pubere. Giustina sarebbe passata attraverso le fiamme del fuoco eterno pur di conservare l'impero al figlio Valentiniano e accetta senza troppe riflessioni tutte le condizioni. Ricevuta una flotta per tornare in Italia, s'imbarca sulla nave col figlio pronta a dar battaglia, ma non rivedrà più le coste italiane perché una provvidenziale morte le impedì di assistere anche alla rovina dell'amato Valentiniano II.

Le accuse contro Giustina continueranno anche dopo la sua morte. Paolino ci informa infatti che un tale Innocenzo, sottoposto a tortura dal giudice in un processo di stregoneria, confessò che i maggiori tormenti gli venivano inflitti dall'angelo custode di Ambrogio, perché ai tempi di Giustina era salito di notte sul tetto della chiesa per aizzare gli odi della gente contro il vescovo e ivi aveva compiuto sacrifici. Aveva anche mandato demoni a ucciderlo, ma non erano neppure riusciti ad avvicinarsi a lui, perché una barriera di fuoco difendeva la casa; un altro era arrivato armato fino alla camera, ma il braccio si era paralizzato finché non aveva confessato che il mandante era stata Giustina (Vita Ambr. § 20).



Galla, la condanna all'oblio
Durante l'esilio a Salonicco nell'autunno del 387 Galla viene data precipitosamente in moglie a Teodosio, vedovo da due anni e quarantenne, che ha già due figli, Arcadio e Onorio. Galla ha circa tredici anni. Il matrimonio serve a sancire la legittimità della presenza di Teodosio sul trono d'Oriente, mentre per l'Occidente si tenta di recuperare il trono a Valentiniano II.

La manovra fu così plateale che bisognò subito ammantarla di romanticismo. Zosimo, storico bizantino vissuto alla metà del V sec., racconta che Teodosio stava esponendo al consistoro la possibilità di un accordo col suo antico amico Magno Massimo, quando entrò Giustina con Galla, e fu coup de foudre. Giustina acconsentì a concedere la figlia in matrimonio solo a condizione che Teodosio vendicasse la morte di Graziano, dichiarando guerra a Massimo. Alcuni vollero vedere in Galla doti che difficilmente oggidì potremmo attribuire a una tredicenne: Galla, grazie alla sua avvenenza e al grande fascino personale, avrebbe esercitato un grande ascendente sul marito, che solo per lei avrebbe combattuto contro il suo amico Massimo.

Come età Galla è molto più vicina ai figli di Teodosio che non al marito: ha solo tre anni più di Arcadio e la loro convivenza nel palazzo di Costantinopoli si dimostra subito problematica. Verso la fine del 390, anzi, i rapporti tra i due si erano fatti talmente gravi da rendere necessario il richiamo di Teodosio da Milano per placare gli animi. Galla doveva essere convinta della superiorità dinastica che vantava rispetto ad Arcadio e Onorio, sebbene lei stessa non fosse che la figlia di un ex generale pannonico e di una infaticabile arrampicatrice sociale. La soluzione fu che lei si trasferisse con la piccola Placidia in un palazzo che da lei prese il nome, la domus Placidiana (Marcellinus Comes, Chronicon).

Le gravidanze di Galla si susseguono, ma con esito infelice. Il primo figlio nasce nell'estate 388 e si chiama Graziano, poco opportunamente potremmo dire, visto che era stato Teodosio a relegare l'omonimo fratellastro di Galla a Treviri e a provocarne la morte. Il piccolo seguì presto la sorte dello zio.

Nel 389 vede la luce Placidia. Claudiano, panegirista di Stilicone, descrive la bambina vestita d'oro e incoronata a fianco dei fratellastri in occasione della cerimonia d'incoronazione ad augusto del piccolo Onorio il 10 gennaio 393 a Costantinopoli: dovevano sembrare poco più di sontuose mascherine di carnevale, lui a nove anni con la corona raggiata in testa e i simboli del comando, lei una pupattola di quattro anni rifulgente d'oro. Sul cocchio che dal circo li ricondusse al palazzo mancava mamma Galla, forse impedita dalla gravidanza che doveva concludersi con la prematura morte di Giovanni.

Era una ben strana sorte la sua: lei, la legittima erede dell'impero esiliata dal palazzo, dove stava invece la nipote di Teodosio, Serena, e condannata a veder morire i suoi figli maschi come un tempo l'infelice Elena. Certo ci sarà stato qualcuno che avrà parlato di stregonerie e forse ci saranno state vittime innocenti per compensare queste morti premature.

L'ultima immagine che abbiamo di Galla la dipinge Zosimo al momento in cui le fu comunicata la morte del fratello Valentiniano II nel 392: "Galla riempì la reggia delle sue grida". Nella sua laconicità la nota di Zosimo è piena di pathos come l'Urlo di Munch, vi si sente la disperazione, la rabbia, il rancore verso il marito che aveva causato - direttamente o indirettamente - per la seconda volta la morte di un suo fratello. Cosa fece poi Galla per meritare la censura degli storici, come visse? Sappiamo solo che morì nella primavera 394 in occasione di un altro parto. Ma neppure il pio vescovo Ambrogio trovò una parola di conforto per lei, che non compare fra le anime del paradiso, né per il neonato. Forse, come un'eroina di una tragedia greca, Galla aveva preferito togliere la vita al bambino che aveva in grembo, sacrificando anche se stessa, pur di privare il marito della discendenza e punirlo per la morte di Valentiniano. Forse era uscita di senno, che per la mentalità dell'epoca equivaleva ad essere posseduta dal demonio. Il silenzio con cui l'hanno avvolta gli storici lascia penetrare solo l'eco delle sue urla dai recessi della reggia.



Grata e Giusta, le sorelle inconsolabili
Alla morte di Valentiniano II il 15 maggio 392, anche le sorelle rimaste a vivere nel palazzo di Milano appaiono straziate dal dolore. Il giovane imperatore era stato trovato impiccato, ma si sospettò immediatamente che l'apparente suicidio servisse a mascherare l'assassinio per strangolamento (Paolo, Historia). Una morte in battaglia sarebbe stata più comprensibile, ma due fratelli assassinati lasciavano le sorelle attonite, soprattutto se il mandante prendeva nei loro incubi le sembianze del cognato Teodosio. Lui aveva assegnato entrambi i fratelli alla pericolosa sede delle Gallie, lui forse aveva soffiato sulle illusioni di potere di avidi barbari e funzionari corrotti. La scomparsa di una personalità dominante come quella di Giustina aveva lasciato i figli privi di guida. Giusta e Grata si erano unite saldamente al fratello, sperando di formare una coalizione invincibile.

Nell'orazione funebre che Ambrogio pronuncia per il funerale del giovane imperatore si accenna a questo vincolo affettivo fortissimo: (36) "Quale affetto Valentiniano ha nutrito per le sorelle. In loro trovava riparo, in loro consolazione, in loro rilassava l'animo suo e ristorava il suo cuore oppresso dalle preoccupazioni. Baciava alle sorelle mani e capo, dimentico della sua dignità imperiale e tanto più sovrastava gli altri in virtù del suo potere, tanto più si mostrava umile con le sorelle. (38) Nel beneficio della vostra presenza poneva ogni suo conforto, così che non sentiva troppo la mancanza di una sposa. Perciò differiva le nozze, poiché lo saziava il tenero affetto della vostra gentilezza."

Valentiniano si sposò, ma non compare mai citata la moglie. Le sorelle, a due mesi dalla morte, erano così inconsolabili da meritare un affettuoso ma risoluto rimprovero da Ambrogio: (42) "Voi desiderate abbracciare il suo corpo, vi stringete con le vostre persone al suo tumulo. Quel tumulo sia per voi la dimora di vostro fratello, sia esso il palazzo imperiale dove riposano quelle membra a voi care. (48) Non avete motivo di affliggervi oltre misura per vostro fratello: era nato uomo, era soggetto alla fragilità umana. Ma ammettiamo pure che fosse doveroso manifestare con gemiti il proprio dolore. Fino a quando si dovrebbe prolungare il tempo del lutto? Per due mesi interi vi siete strette ogni giorno intorno alla spoglia di vostro fratello..." ora basta, impone Ambrogio.

E così, con l'immagine del lutto e del dolore, anche Grata e Giusta svaniscono dalla storia non lasciando altra traccia che le loro lacrime.



Un'imperatrice mancata: Serena
Serena era figlia di Onorio, fratello di Teodosio, e quindi di origine ispanica. Viene descritta da Claudiano come bionda, bellissima, ma anche ambiziosa, autoritaria, senza scrupoli. Alla morte dei genitori venne adottata come figlia da Teodosio, che l'adorava: era l'unica capace di arrestare le sue collere esplosive, di allietare le sue depressioni, di lenire le sue febbri.

La giovane donna crebbe consapevole del suo fascino e del suo potere, che esercitò a Costantinopoli dando parecchio filo da torcere alla pia Flaccilla, la prima moglie di Teodosio, e poi forse a Galla. Nel 384 venne data in moglie a un abile generale semi-barbaro, Stilicone. Sua madre si dice fosse un'aristocratica romana - eventualità contraria alla legge - suo padre un capo vandalo. Aveva seguito a Costantinopoli la carriera dei militari palatini: tribunus, comes stabuli sacri, comes domesticorum e infine generale in capo di tutto l'esercito.

A Costantinopoli nasce la prima figlia, Maria, nel 385; poi, quando nell'ottobre 388 Teodosio assegna la sede di Milano al piccolo figlio Onorio che, avendo solo cinque anni, resta a Costantinopoli, a Milano viene Serena. Avrà considerato il cambio di sede un male indispensabile per tenere sotto controllo Grata e Giusta, facili prede di qualunque arrampicatore privo di scrupoli. Nel 389, in occasione di una visita a Roma di Teodosio, nasce Eucherio: l'evento fu considerato di buon auspicio e, essendo Serena sua figlia adottiva, Teodosio assaporò la gioia di essere nonno.

Dopo la morte di Galla nella primavera 394, Teodosio decide di affidare alle cure di Serena a Milano sia Onorio che la piccola Placidia e quando alla fine dell'anno l'imperatore si ammala gravemente a Roma, sentendo approssimarsi la fine manda a chiamare Serena col piccolo Onorio. La nipote viene investita in questa occasione di un ruolo non contemplato giuridicamente ma affidatole di fatto: è la tutrice di Onorio, come un tempo Giustina lo era stata di Valentiniano II. Ma Giustina era l'imperatrice-madre, mentre Serena è solo una cugina destinata a reggere col marito semibarbaro la parte occidentale dell'impero invece di Onorio.

Il 17 gennaio 395 Teodosio spira a Milano, affidando l'educazione spirituale di Onorio e Placidia ad Ambrogio. La storia sembra ripetersi per il vescovo di Milano che, misogino qual era, deve confrontarsi per la seconda volta con un'imperatrice. Rispetto a Giustina i rapporti potevano essere migliori almeno dal punto di vista confessionale, perché Serena era cattolica. Ma fra Stilicone e Ambrogio sembra aleggiare un'ostilità espressa più dai fatti che dalle parole, al punto che neppure le basiliche cristiane vengono ritenute luoghi sacri e possono essere invase da soldataglie.

Gli anni che seguirono la morte di Teodosio furono segnati da una profonda instabilità politica, dovuta allo scoppio di quella che con linguaggio attuale possiamo chiamare la questione balcanica, argomento che si trascina sotto varie forme fino ai nostri giorni e troppo complesso per essere trattato in questo contesto. Serena si sentì sfuggire di mano la situazione e alla fine del 397 sacrificò la prima figlia Maria sull'altare dinastico, dandola in moglie a Onorio. La cerimonia fu a dir poco sontuosa: Maria ricevette in dono i gioielli della corona, con i quali fu sepolta già nel 404. I gioielli furono ritrovati nel XVI sec., quando aprirono il mausoleo di fianco a S. Pietro; le pietre preziose furono immesse sul mercato e l'oro fuso per la zecca papale. L'assenza di figli, nonostante le tendenze di Onorio fossero risaputamente omosessuali, fu imputata a sortilegi operati da Serena per assicurare l'eredità al figlio Eucherio. L'accusa ci suggerisce che l'immagine popolare di Serena fosse piuttosto offuscata e che di lei si vedesse solo la grande ambizione personale.



Epilogo
Con la morte di Maria dovrebbe terminare il capitolo sulle auguste signore di Milano, perché Onorio volle trasferire la corte a Ravenna, e allora ci limitiamo ad accennare a come si concluse la vita dei personaggi.

Serena temporeggiò facendo sposare nel 407 a Onorio l'altra figlia, Termanzia, in attesa che Eucherio potesse sposare Placidia. Onorio allora accusò Stilicone di volersi costruire un regno barbarico in Gallia con a capo Eucherio. Si scatenò una crudelissima rivolta romana contro la presenza di barbari nell'esercito e nell'agosto 408 Onorio fece arrestare e giustiziare il suocero Stilicone; Eucherio, Serena e Termanzia fuggirono a Roma, ma l'antipatia del Senato romano verso Serena e il figlio ne decretò la morte. Serena aveva sfidato le antiche divinità romane sottraendo una collana alla statua di Giunone per adornarsene: era una sacrilega e non poteva essere aiutata. Termanzia si ritirò in un monastero, mentre sua madre e suo fratello venivano decapitati.

A orchestrare la regìa delle accuse fu Placidia, che finalmente poteva vendicarsi di essere stata segregata e strumentalizzata per diciannove anni da Serena (Zosimo, V, 38). Contro Placidia si sono schierati gli storici a noi contemporanei, bollandola del titolo di delatrice. Certo era una donna che aveva meditato e accarezzato la sua vendetta nelle interminabili giornate passate alla corte di Milano, in un'adolescenza priva di gioie e di affetti. La Nemesi a volte assume questo aspetto.




Bibliografia
Fonti
Ambrogio, Epistole, Atti del sinodo di Aquileia e Orazioni funebri

Ammiano Marcellino, Storie

Claudiano, De IV Consulatu Honorii e Laus Serenae

Marcellinus Comes, Chronicon, P.L. LII 919

Paolo, Storia, M.G.H.A.A. II

Paolo Diacono, Vita di S. Ambrogio

Sozomeno, Storia ecclesiastica

Zosimo, Storia nuova



Testi storici e critici
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CHAUSSON F., La genéalogie de l'imperatrice Justine, in "Archeologia cristiana", c.s.

Duby G.-Perrot M., Storia delle donne. L'antichità, Bari 1990, p. 342

Fortina Marcello, L’imperatore Graziano, SEI 1953 (Sormani N 1680)

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Storia di Milano, vol. I, pp. 315-318, 326-338, 348-356, 362, 382, 609, 655, 678, 693.

Ultima modifica: martedì 30 luglio 2002

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